Zanskar, una perla per un sogno.

Manali, Lo Mantang, Lahore, Ulan Batoor, Kathmandu, Kashgar, Leh… Alcuni dei nomi che come perle chiamate città fanno parte di una collana che forma il mio sogno di viaggiatrice. Molti di questi luoghi ora sono divenuti reali, non sono più solo immagini impresse nella mente. Altre chissà. Leh è l’ultima in ordine di tempo di queste perle, posata nel suo scrigno di colline color ocra e rosso e giallo, a una quota di circa 3500 metri.

L’ho vista dall’alto mentre atterravo e il primo pensiero è andato a chi nei secoli passati l’ha raggiunta a piedi, giungendo da ogni direzione, e mi sono chiesta se la meraviglia da loro provata sia stata la stessa, maggiore oppure solo di forma diversa. Capitale dell’omonimo distretto, che con quello di Kargil forma il Ladakh, Leh rappresenta la nuova frontiera per turisti attratti dal territorio e dai suoi monasteri, per trekkers affascinati dalle innumerevoli possibilità di cammino, per alpinisti che vedono nuove possibilità nelle sue montagne che pur non raggiungendo gli 8000 metri svettano superbe con i loro fianchi rocciosi o coperti da grandi ghiacciai. Il buddismo è transitato da qui durante la sua espansione da ovest ad est e l’universo buddista permea ancora questa terra. La maggior parte della popolazione è di origine tibetana, la lingua è la stessa parlata sul grande altopiano, uguali sono le costruzioni e i magnifici monasteri. Diversa è la libertà in cui qui si può vivere. Leh è un punto di arrivo, ma nello stesso tempo è un punto di partenza verso altre destinazioni. La mia è stata lo Zanskar. Nome ancora più misterioso, territorio isolato durante l’inverno se non per chi, come pochi abitanti che ne hanno bisogno, e per ancor meno turisti che gli zanskari faticano a comprendere, affronta il percorso lungo il fiume gelato che da Padum, capoluogo del distretto dello Zanskar, a 3650 metri di quota, scende fino a confluire nel grande e sacro Indo. D’estate nessun problema; una strada porta in due giorni fino a lì. Chilometri e chilometri di su e giù, di passi che si aggirano sui 5000 metri, di pascoli poveri, di piccoli villaggi, di gole mozzafiato, di strapiombi che mi fanno aggrappare al sedile su cui sono seduta. Giungo a Padum in una piovosa sera di agosto. Ma il monsone non doveva essere fermato dalla grande Himalaya? I cambiamenti climatici, l’innalzarsi della temperatura del globo, l’inquinamento, tutto diviene più credibile quando piove dove non dovrebbe!!! Ma non c’è da preoccuparsi, dice il calendario tibetano, il 16 ci sarà luna piena e il tempo cambierà… Ci credo, non credo? Semplicemente aspetto e spero.

Nel vicino monastero di Sani c’è gran fermento, sono i giorni del grande festival, il più importante dell’anno. Sono lì con i miei compagni di viaggio e con centinaia di persone che arrivano da ogni dove per assistere alle danze rituali, con i monaci che indossano magnifici costumi ed enormi maschere di cartapesta.

Vento e polvere danzano con loro ma nulla può togliere nulla alla magnificenza della storia che essi tramandano come un libro che ognuno è in grado di leggere.

La notte di luna piena mantiene la promessa e cambia il tempo.

Iniziamo il cammino che ci porterà a percorrere in 10 giorni i 180 chilometri di sentieri che collegano Padum a Lamayuru. Un trekking definito “classico” perché rappresenta uno di quelli che si dice “vale la pena di fare” e descrivere l’itinerario mi sembra riduttivo, lo si può trovare in qualsiasi guida. E’ un percorso duro, nessuna difficoltà ma i dislivelli sono impegnativi, soprattutto nella parte centrale. Ti svegli al mattino, esci dalla tenda, e sai che dovrai salire di 1000 metri, poi al passo vedi la valle, ma non il fiume perché è 1300 metri più in basso, e già sull’altro versante, molto molto lontano, intravedi la traccia del sentiero che ti farà risalire a fine giornata di altri 600 metri per giungere a piantare di nuovo la tenda. I colori sono inimmaginabili e quelle foto che avevi sempre visto sui libri sono ora lì, davanti ai tuoi occhi. Una lama di luce penetra dalle nubi e va ad illuminare, come diretta da un regista nascosto, il monastero abbarbicato sulla cresta. Un attimo, forse due, ma la tua macchina fotografica è nello zaino e non riesci a fermare quell’istante che indelebile resterà però fissato ai tuoi ricordi. Non ci sono Guest House, si dorme in tenda, non c’è elettricità, ma i cuochi ladakhi sono maestri nella loro arte. I cavalli si susseguono in lunghe file trasportando i bagagli e lo scenario della sera è ricco di personaggi a due e quattro gambe, di teli multicolori, di voci, e del canto del fiume. Una infinita moltitudine di stelle è una perfetta coperta per un giusto riposo.

Il Single La, il passo del Leone, il punto più alto, qualche metro sopra i 5000, ma fatico a ricordare tutti i passi prima e dopo quello, 4700, 4800, 4950 metri, in un susseguirsi di salite e discese, quasi sempre sotto un sole cocente, dove diventi consapevole delle tue forze fisiche e mentali ad ogni passo, e dove non devi mollare. Immagini. L’aria si fa sottile, il respiro difficile. Dal terreno arido spuntano anemoni blu. Cinquemila metri, bandiere di preghiera tibetane che sventolano. Il passo. Ci abbracciamo, qualche lacrima scappa, siamo felici. Potremmo non esserlo?...

Pareti alte a strapiombo, la gola è strettissima, rocce dai cento colori, il sentiero corre alto sul fiume. Sbarro gli occhi. Uomini arrampicati in equilibrio improbabile usano martelli pneumatici. Il progetto di una strada diviene reale. Le loro donne e i loro bimbi stanno sotto un telo, aspettano i mariti, i padri, sperando che un incidente non se li porti via. Sguardi persi di chi semplicemente pensa a sopravvivere… Photoskar, tramonto, i pastori tornano con le loro greggi al villaggio. Belati e fischi e polvere nell’aria. Una di quelle lame di luce irrompe dal cielo e colpisce la terra. Dieci minuti e torna il silenzio abbracciato stretto stretto al buio della notte… Ultimo giorno, le antiche statue del Gompa lasciano a bocca aperta per la loro imponenza e perfezione. Una valle lunare. Un’ultima svolta del sentiero e là in alto appare il monastero di Lamayuru, uno dei più grandi dell’India, che si staglia perfetto contro il cielo limpido. Siamo arrivati. C’è quasi un attimo di smarrimento quando ce ne accorgiamo. Il resto è solo un percorso a ritroso che ci porterà anche fin troppo velocemente di nuovo a Leh, poi al caos di Delhi e infine a casa. Molti giorni occorrono prima che mi renda conto di ciò che ho vissuto, e credo che a molti succeda questo. Solo quando scarico le foto e le guardo e le gusto, allora una ad una tutte le cose che ho visto divengono nitide dapprima nel cuore e poi nella mente, andando a formare il grande mosaico che si chiama viaggio. La perla ha allungato la mia collana e risplende di vivida luce… Il sogno non può che continuare.

Julè julè.

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